Una conversazione con Massimo Pica Ciamarra
Una conversazione con Massimo Pica Ciamarra
A cura di Massimo Del Seppia
Formazione e riferimenti
. 1 come è stato il tuo periodo di formazione? Famiglia, Scuola e Università, Napoli, riferimenti culturali ed interessi Non lo consiglierei: a scuola per 9 anni anziché per 13, la prima volta per l’esame di ammissione alla 4° elementare, l’ultima che non avevo ancora compiuto 17 anni (esami di maturità classica). Troppo di fretta, coltivando interessi lontani: la commedia del ‘700, l’atletica leggera, gli scacchi da sempre passione di mio padre. Gli scacchi non sono un gioco, ma formidabile educazione a prevedere complessi sistemi di concatenazioni alternative (ed ebbi la fortuna di frequentare amici di pochi anni più di me, ma già anche formalmente “maestri” ed un campione italiano). Tutto abbandonato nel pieno del periodo universitario, allora scuola non affollata, capace di aprire la mente ed offrire occasioni importanti.
. 2 perché hai scelto di studiare architettura e successivamente di fare l’architetto? Un fratello maggiore e uno minore alla facoltà di Ingegneria (meccanico, aerospaziale): l’architettura era una via diversa, allora non molto frequentata. Forse l’attrazione per qualcosa di sconosciuto. Intuizione più che scelta, perché man mano ho cominciato a capire cosa davvero significava.
. 3 parlaci della tua esperienza con il mondo dell’università Sorprese che si dipanavano e s’intrecciavano al tempo stesso: le idee si chiarivano facendo, scoprendo, passando fra argomenti e problemi molto diversi, un opportuno caos per chi si sta formando. Pochi docenti, quelli di “ruolo” erano sette. Personalità che ricordo ancora con interesse: Roberto Pane, Giulio De Luca, Ezio de Felice. Soprattutto sperimentavamo come nell’università si apprende fuori dalle aule, molto dai colleghi, da quelli più grandi e da quelli che man mano arrivavano. Ci conoscevamo tutti, vivevamo l’intera giornata negli spazi dell’Università. Erano gli anni ’50, quelli in cui c’era grande fiducia nel futuro, grande circolazione di libri, riviste, tutto sembrava rinascere. Avevamo notizia dei CIAM, leggevamo moltissimo, eravamo attenti a quanto succedeva altrove, e l’università non di rado invitava personaggio di grande rilievo. Dopo la laurea, l’ho conosciuta dall’interno: rapporto complesso e per alcuni versi amaro. Gli aspetti positivi li sintetizzai sette anni fa in “Fuori, dentro l’Università”, il rito dell’“ultima lezione” che la Facoltà, con affetto e calore, mi spinse a compiere. Un testo pubblicato e facilmente reperibile.
. 4 come sono stati i tuoi esordi nella professione di Architetto, i primi progetti Qualche settimana prima della seduta di laurea, era fine novembre, un ingegnere (triennale) svizzero che dirigeva un importante stabilimento da poco insediatosi in un comune limitrofo, un vicino di casa, sorpreso dal vedermi molto impegnato per la tesi (“come, così giovane, già diventi “dottore” in architettura ?”) mi affidò progetto e direzione lavori del suo stabilimento. Di fatto mi feci aiutare per perfezionare le 8 grandi tavole del progetto di laurea ormai ultimato e mi lanciai nell’avventura. Cominciai ad andare in cantiere senza esperienza, in silenzio, ad osservare ed apprendere, ma avendo formale ruolo di dirigere. Quel progetto fu una grande esperienza con una forte ambizione: materializzare i principi della “forma aperta in architettura” di cui leggevo, sentivo, parlavamo … Ho avuto la fortuna di entrare in rapporto con alcuni ingegneri strutturisti giovani, più adulti e quindi già con esperienza: capii che potevano essere dei “complici” formidabili. La “Angus” è stato il mio primo progetto, realizzato in più fasi e seguito in ogni dettaglio: un cantiere scuola, carico di spunti ed innovazioni.
.5 i primi compagni di lavoro e poi come è nata la storia dei Pica Ciamarra Associati ? All’inizio qualche coesistenza in un piccolo studio con Giuseppe Iacone (avevamo preparato insieme alcuni esami degli ultimi anni), Mauro Wolfler (altro compagno di corso), poi per vari anni -dal ‘63 al ’69- con Riccardo Dalisi per fare concorsi insieme. Vincemmo con Michele Capobianco quello per la Borsa Merci di Napoli, poi -sempre con Riccardo ed altri amici fra cui Luciana de Rosa- nel 1968 quello per la sede della Facoltà di Scienze e Farmacia dell’Università di Messina. Con l’incarico prima di una consulenza per la scelta dell’area e per il bando del concorso internazionale per l’Università della Calabria, poi del “polifunzionale di Arcavacata”, con Luciana nel ‘71 avviammo lo studio “Pica Ciamarra Associati” al quale si associarono Antimo Rocereto (dal ’71 era mio assistente all’Università), poi Claudio De Martino (avevo seguito la sua laurea, nell’80). Nel 1992 (tutto cambiava con il trattato di Maastricht) organizzammo una sede a Parigi e poco dopo associammo qui a Napoli vari specialisti (strutture, impianti, studi di fattibilità, programmazione e costi, botanica, manutenzione, sicurezza): il progetto non è concepito da competenze separate, esige approcci integrati. È poi continuato il processo di aggregazione di energie giovani e motivate. È nelle cose che gli ingeneri abbiano ciascuno una specifica competenza (strutture, impianti, studi di fattibilità e così via; così il botanico paesaggista; anche gli architetti che formano il nostro studio-laboratorio hanno ciascuno un approccio che ben s’intreccia con tutti gli altri: compagni di lavoro ormai quasi antichi come Luciana, che ha particolare attenzione alle questioni della sostenibilità; Claudio, particolarmente esperto di tecnologie e problematiche esecutive, Antimo (da qualche anno purtroppo non più disposto ai quasi 100 km giornalieri e quindi non sempre partecipe alle iniziative comuni), Patrizia Bottaro che guida il settore urbanistico, Paola Gargiulo, Carolina Poidomani, Emanuele mio nipote (orgoglioso di non aver mai seguito un mio corso durante la sua esperienza universitaria); Alexander De Siena, sempre disponibile per le iniziative di concorso; Guido De Martino molto attento al design; Angelo Verderosa che partecipa a tante attività molte delle quali in piena autonomia. In definitiva siamo un gruppo di veri amici, molto affiatati.
. 6 parlaci di come sei venuto in contatto con il mondo del Team X Editoriale di Bruno Zevi sull’Architettura cronache e storia: “Quel misterioso quadrato blu”. Alla fine degli anni ’50 un foglio quasi introvabile, ma trovato. Usciva ad Helsinki a cura di alcuni giovani ribelli che avevano avuto il coraggio di mettere in crisi Le Corbusier e le sue teorie. Ogni numero della rivista era talmente piccolo che lo si poteva leggere più volte, rifletterci, captare … Poi solo quattro numeri all’anno, ogni volta una questione diversa, uno stimolo acuto. Non era la rivista del Team X perché il Team X non è mai stato un’organizzazione formalizzata: ma collaboravano al quel foglio Georges Candilis, Shadrach Woods, Jacob Bakema, Aldo Van Eyck, Giancarlo De Carlo, Alison e Peter Smithson, …
. 7 il foglio, Le Carré Bleu, di cui poi ne sei diventato direttore, puoi raccontarci la sua visione, il suo messaggio, la sua idea Si « Le Carrè Bleu, feuille internationale d’architecture » che nel 1962 sposta poi la sua sede da Helsinki a Parigi facilitando contatti più diretti. Le Carrè Bleu è quindi una rivista francese, sin dall’inizio diretta da André Schimmerling, poi con lo straordinario apporto di Philippe Fouquey e da sempre con un Cercle de Rédaction internazionale. Nei primi anni 2000 -Schimmerling ormai molto anziano- attraverso una serie di incontri me ne si affidò la responsabilità, affiancato da Luciana de Rosa che ne coordina il Cercle de Rédaction. Questa fase si concluse nel gennaio 2006 con un’intesa giornata di studi al Beaubourg / Centre Pompidou: “Mémoire en mouvement”. Già negli anni ’90, durante i colloqui “l’Architecte et le pouvoir”, una serie di confronti fra architetti di una ventina di paesi differenti, mi si chiese di presiedere l’”Observatoire International de l’Architecture” che poi lanciò il progetto di “Direttiva europea per l’Architettura e gli ambienti di vita”. Il CB è portatore delle tesi del Team X e dei loro sviluppi: approccio alla sostenibilità e all’alta qualità ambientale; privilegio dei percorsi e degli spazi d’incontro; la forma come espressione risultante di molte questioni (è di Aulis Blomstedt, alla fine degli anni ’50, il paragone con l’iceberg, la cui parte visibile non è che il segnale di quanto costituisce l’iceberg propriamente detto, e non si vede). Un’avventura delle idee, un riflettere ed iniettare questioni, che tuttora il CB continua a porre e far evolvere.
. 8 i passaggi fondamentali per la tua carriera Domanda difficile: il boom ed il miracolo economico italiano di allora non coinvolsero noi giovani, spinti o costretti a fare concorsi, ad entusiasmarci per ogni nuova avventura, sempre temi di interesse pubblico, necessariamente complessi, aperti al sociale e che imponevano di addentrarsi nell’utopia. Appena laureato cominciai come “assistente volontario” di Marcello Canino, poi di Michele Capobianco: mentre la Angus era un cantiere e si realizzava la “casa multifamiliare a Posillipo” (dove dal 1970 ho lo studio), un’importante serie di concorsi allora contraddistinti da motti: “Arianna senza filo” (1963), “un seme per la metropoli” (1964), “il sagittario” (1964), e finalmente “Kronos” (1968) con il quale un gruppo di giovanissimi prevalse a sorpresa -in 2°grado- su personalità importanti (Giuseppe Samonà, Saul Greco) vincendo il confronto per la sede delle facoltà di Scienze e Farmacia dell’Università di Messina. Più o meno nello stesso periodo “libera docenza” (con una lezione sul tema della “progettazione di gruppo”), incarico a sorpresa del corso al 5°anno di Progettazione architettonica, poco dopo la straordinaria esperienza della scelta dell’area, dell’impostazione del concorso internazionale e della costruzione del primo edificio della nuova Università della Calabria.
.9 mi hai raccontato tempo fa della tua amicizia con Mimmo Iodice autore di molte fotografie dei vostri lavori. Puoi raccontarci come vi siete conosciuti e come avete deciso di collaborare per molti anni? Mimmo è da sempre amico e fotografo straordinario, capace di letture originali della realtà (ed anche di quanto è alle sue spalle): ha fotografato la “Angus”, la mia “opera prima”. Poi ha interpretato la “casa a Posillipo”. Per decenni su ogni tema ricorrevamo a lui – bellissime le immagini del “polifunzionale di Arcavacata” e dei “dipartimenti di Farmacia” a Messina- sempre, credo fino ai primi anni ’90. Poi ha consolidato la sua presenza internazionale e di fatto non lavorava più come fotografo di architettura. Già per la “Piazza di Fuorigrotta” le immagini erano in parte sue e in parte di Barbara, la figlia. Quelle della Teuco Guzzini a Recanati sono dell’altro suo figlio, Francesco. Oggi siamo due vecchi amici, ambedue nella terza età, che si incontrano a cena, qualche volta fuori, con un solido rapporto basato credo su condivisioni di valori.
.10 chi consideri il tuo maestro Le prime esperienze di collaborazione sono durante il periodo degli studi universitari, occasioni di lavoro in cui si apprendeva molto. Ricordo un concorso che m’impegnò notte e giorno per settimane a Roma disegnando per il gruppo di Fabrizio Giovenale, Mario Ghio, Vittoria Calzolari e Francesco Della Sala (era uno dei nostri docenti più interessanti): imparai moltissimo; poco prima un altro concorso diretto da Giulio De Luca e Michele Capobianco. Frequentando lo studio di Della Sala, vidi per la prima volta un progetto raccolto in un grande album, centinaia di disegni dettagliatissimi dei quali occorreva sviluppare gli esecutivi (anche se nei grafici dei pilastri si leggevano chiaramente i ferri di armatura !) Era il progetto del TAC e di Walter Gropius per l’Università di Bagdad. Poi ho lavorato gomito a gomito con colleghi di poco più grandi dai quali ho imparato molto: Riccardo Dalisi prima di ogni altro. Di fatto non ho avuto un “maestro”, ma ho imparato da molti. Nel mentre andavo cercando maestri lontani, “maîtres à penser” più che tradizionali maestri dell’arte del costruire.
. 11 in che modo ti sei rapportato con il movimento moderno italiano e quale peso ha avuto nella tua formazione Negli anni ’50 a Napoli c’era Luigi Cosenza e non era difficile frequentarlo, rimanere affascinati dai suoi discorsi che spaziavano liberamente (era anche il padre di amici); in Italia Rogers, Michelucci, Quaroni, Libera, De Carlo, Albini … Ho avuto la fortuna di studiare in un periodo pervaso da grande fiducia e nel quale operavano persone di forte spessore culturale.
. 12 il tuo rapporto con l’architettura organica ed in particolare le figure di Wright e Aalto Fra le opposte fazioni di allora -organici e razionalisti, wrightiani e corbusieriani- Alvar Aalto rappresentava una fascinosa mediazione. Wright è stato un primo mito, la spazialità delle sue opere sorprendeva, ma lo studio e le esperienze delle architetture di Aalto sembravano tracciare indicazioni più vicine, prive dell’istanza antiurbana wrightiana. I principi dell’architettura organica restano capisaldi inconfutabili, ma nel Municipio di Säynätsalo trovo messaggi per me più interessanti che nelle Prairie Houses.
. 13 quale figura del secolo scorso nel panorama italiano consideri fondamentale Fra gli architetti? oltre a Ernesto Rogers, che non ho mai avuto la fortuna di conoscere personalmente, certamente Giancarlo De Carlo, per i principi della costruzione logica del progetto; e Bruno Zevi, e non solo per la sua “storia come metodologia del fare architettonico”.
. 14 puoi indicarmi 5 opere che ritieni capolavori nell’ambito dell’architettura di sempre? Per il significato che dò al termine architettura, non possono essere singoli edifici, ma straordinari intrecci fra costruito e spazi aperti. Provo a indicare 5 opere in Italia: il complesso del Campidoglio a Roma, il Campo dei Miracoli a Pisa, lo spazio sacro di Selinunte, i sassi di Matera, le tre piazze di Siena.
. 15 che rapporto hai con la storia dell’architettura? Come ti relazioni rispetto alle opere dei grandi maestri del passato, i greci l’architettura romana, Buscketo, Brunelleschi, Alberti, Michelangelo, Palladio … Ho seguito per tre anni i corsi di Roberto Pane: erano corsi monografici sui grandi del passato. Pane ci faceva comprendere come ad esempio Michelangelo o Palladio non rispondono ai codici del loro tempo: metteva in luce la splendida spregiudicatezza nel realizzare, chiariva come si rapportavano ai contesti, o li formavano. Della “lezione” di Zevi ti ho risposto qualche istante fa….
. 16 cosa deve rappresentare la figura dell’architetto, chi è per te l’Architetto, quali sono le problematiche a cui dovrà rispondere in futuro Architetto è chi che si pone il tema di come lo spazio -il modo in cui lo recingi, lo plasmi, lo leghi ad altri spazi, lo rendi facile e piacevole da vivere- possa contribuire a migliorare la condizione umana. Detto questo, ho l’obbligo di ricordare che con la parola “architetto” si definiscono persone che hanno in realtà ruoli molto diversi nei vari paesi, specie in Europa. Questo dipende dalle prassi, ma le prassi sono determinate dagli apparti normativi: quelli italiani sviliscono il ruolo dell’architetto. Qualche anno fa, con l’Observatoire International de l’Architecture, lanciammo una proposta di ”Direttiva europea per l’architettura e gli ambienti di vita”, ma non siamo riusciti ad andare oltre. Parlare del ruolo dell’architetto nel futuro è difficilissimo ed indispensabile: finché qui mancherà “alfabetizzazione” alla qualità del costruito e quindi una vera domanda di architettura, finché non sarà chiaro il ruolo sociale della bellezza e della qualità urbana, l’architetto sarà una figura inutile, succube di altre logiche; i processi di trasformazione dello spazio risponderanno ad altri interessi e altri saranno i veri attori ed autori. Poiché ho fiducia nel futuro, riecheggiando la profezia di Keynes, credo che verrà un giorno in cui l’economia prenderà quel posto di seconda fila che le spetta e avranno prevalenza rapporti umani e creatività. Allora il ruolo degli architetti, la visione integrata di cui dovranno essere portatori, sarà essenziale.
Filosofia
. 17 nel nostro manifesto esaltiamo la conoscenza e mettiamo al bando ogni forma di superficialità e di spreco che purtroppo sembra invece molto diffusa: cosa è per te la conoscenza? Leggere fra le cose e nelle cose, raccogliere e strutturare informazioni, farle dialogare con qualche intuizione che richieda nuova conoscenza. In altre parole immergersi nella confusione, alimentarsene e, per liberarsene, cercare un “filo di Arianna” o “il rasoio di Occam”. La conoscenza peraltro è un bene molto particolare, chi la dà non se ne priva: si moltiplica, non si divide.
.18 noi come associazione crediamo profondamente nell’importanza della città e della bellezza come beni preziosi e collettivi; quale è la tua idea per una crescita organica ed armonica per l’Uomo? La “città” è una straordinaria creazione umana: è il modo di tenere insieme diversità e farle interagire. Questo continuo accumularsi e materializzarsi di materia stratifica pensiero, volontà corali o spesso contrastanti. Contiene eccedenze, inutilità che hanno funzioni preziose. La città incrementa la conoscenza collettiva, la consapevolezza dell’opportunità di modificarne le parti perché rispondano al continuo mutare delle conoscenze: è una rincorsa infinita nella quale si è sempre in ritardo. La realtà intreccia utopie diverse. Dominanze di interessi contrapposti. La città può essere un luogo in cui si sperimentano modalità per pervenire a condivisioni. Più si aprono le nostre menti, più scompaiono ottiche parziali, più si colgono relazioni, più si conosce, più c’è futuro.
.19 come laboratorio ci occupiamo di ogni forma di espressione culturale, puoi indicarci alcuni tuoi riferimenti tra cinema, musica, pittura e oltre? Mi limito a indicare attenzioni e preferenze. Nel cinema, Federico Fellini ed il suo slancio nel reale paradossale, poi Wim Wenders. Nella musica, George Gershwin e John Cage. Nella pittura, da Gauguin ai Futuristi, da Mirò ai surrealisti. Nella filosofia, da Lyotard a …. , ma di fatto in ogni campo conosco troppo poco ! Quello che m’interessa è riuscire a scorgere, in mondi apparentemente diversi, convergenze di approcci e di temi.
. 20 nei vostri progetti trovo sempre una linea ed un principio guida personale mai alla moda ma sempre dettato da analisi e ragionamenti complessi; vorrei che tu mi esprimessi il tuo punto di vista sulla situazione dell’architettura contemporanea. Credo che quando sarà diffusa la convinzione che l’architettura vive di relazioni, che non è soprattutto questione di edifici, forse entreremo in un contemporaneo in cui credere e che avrà conseguenze. Una cosa è il linguaggio del contemporaneo, altra il pensiero contemporaneo. Finché l’architettura, nella visione comune e in quella di chi la produce, può ancora identificarsi in un bell’edificio, non saremo mai davvero in grado di affrontarla.
. 21 il tuo lavoro è sempre stato facente parte di un gruppo di lavoro, un laboratorio permanente; puoi raccontarci i vostri metodi di lavoro? Al di là degli artisti isolati, ogni creazione è un’impresa comune: così un’orchestra, così un film, così dovunque. Sarebbe un disastro cacofonico se nelle pazienti prove d’orchestra ciascuno non suonasse il suo strumento e nello stesso tempo non riuscisse a comprendere l’attimo in cui deve intervenire, quando e quanto deve produrre. Il lavoro è sempre collettivo: la difficoltà è mantenere differenze e chiarezza di ruoli sconfinando sapientemente, se e quando occorre. Pensare molto, stratificare conoscenze e poi attivare un processo in cui ciascuno e tutti riescano a trovare felici un proprio ruolo.
.22 quale importanza ha la tua attività di teorico nei tuoi progetti? Quanto valgono e conoscenze in ambito umanistico in un progetto di architettura? Si, amo la teoria, tentare di sistematizzare conoscenze, ambire alla capacità di comprendere. I problemi tecnici, formali e linguistici interessano molto meno, anche se mi rendo conto di come a volte possano distruggere un’ ”armatura della forma” magari attentamente condivisa e definita.
.23 personalmente sto affrontando un percorso a ritroso nella storia dell’architettura per comprendere affondo il punto in cui siamo oggi e quale direzione sia giusto prendere. Mi chiedo spesso se Vitruvio e Alberti ancora oggi debbano essere i nostri punti di riferimento. Ritieni che Utilitas, Firmitas, Venustas siano principi da riscoprire nel suo significato più profondo? Dobbiamo definitivamente affrancarci dai principi vitruviani, sono propri di un mondo passato. Utilitas? ma ormai la funzione non è che pretesto, cambia con velocità sconvolgente; l’organizzazione dello spazio deve quindi rispondere prima ad altro. Firmitas? Lo scopo principale delle strutture è disegnare lo spazio, cioè paradossalmente il loro compito primario non è tenere in piedi gli edifici. La bellezza -che per Vitruvio era quanto teneva insieme utilitas e firmitas- è essenzialmente nelle relazioni immateriali fra le cose, non è nei singoli oggetti, non si appiattisce nell’estetica, piuttosto è etica ed espressione di senso e di valori sociali.
. 24 quale progetto del vostro lavoro avresti voluto realizzare Tutti, mentre li pensavamo ! In tanti anni ho perso tantissimi concorsi, ma quello per Genova Ponte Parodi è una sconfitta alla quale non mi rassegno. Era il periodo in cui l’Italia uscì da un campionato del mondo sconfitta dall’arbitro Moreno: anche nelle giurie dei concorsi di architettura a volte c’è un Moreno ! Sotto altra angolazione non mi lusinga un contesto, il nostro, che alla fine produce un intervento in tempi lunghissimi e quindi inevitabilmente lo corrode. La Città della Scienza è ancora il cantiere di un progetto dell’estate 1993; la Facoltà di Medicina a Caserta è dell’estate del 1996, finirà nel 2020 se va tutto bene; l’Università di Monte Sant’Angelo dura da oltre trent’anni. Vedi, nel nostro mestiere l’esperienza del costruito è sostanziale: il suo differimento è danno esistenziale.
.25 quale tra i vostri progetti realizzati esprime maggiormente la sua idea progettuale? Orribile domanda! quasi come chiedere quale è il figlio preferito. Al di là delle battute, certamente la casa di Posillipo (un colabrodo energetico, ma attualissima espressione di sostenibilità), la Piazza di Fuorigrotta (purtroppo alterata nel tempo), la Biblioteca di Pistoia, la Città della Scienza e la sede universitaria a Caserta (in costruzione), sono architetture espressive e ricche di spunti da sviluppare.
. 26 quali sono oggi i tuoi stimoli per continuare a credere nell’architettura. L’ingenuità nel credere sempre che tutto si possa fare, sia rapido, possibile. È l’oppio che ti fa stare costantemente nel futuro, evitando che il presente soffochi.
Città
. 27 quale è la tua idea di Città per l’Uomo Compresenza simultanea di opportunità diverse: dimensione e ruolo internazionale, insieme alla “città dei 5 minuti” / la scala di quartiere, la condensazione sociale, l’incontro di differenze, il confronto creativo. La città per l’uomo è un ambiente di vita capace di accogliere diversità in trasformazione. L’opposto di una città che presuppone tutti gli uomini alti 1,72 e, con il braccio alzato, 2,26. Un ambiente di vita per chi ha 3 anni, chi ne ha trenta, chi ne ha novanta.
. 28 che idea hai dell’urbanistica oggi Progressi enormi: ambiente, paesaggio, stratificazioni culturali ne sono ormai capisaldi. Abbandono degli schematismi e delle formule ripetute. Ma siamo ancora sommersi da un apparato normativo confuso, sovrapposto, costruito sulla separazione e non sull’integrazione. Alla fine c’è un distacco enorme fra capacità di elaborazione culturale, fra la qualità dei cittadini e la prassi di chi li amministra.
. 29 piani teorici o piani progetto? Domanda retorica, non può esistere progetto senza solidi riferimenti teorici. Per capirci, credo molto nell’approccio di Oriol Bohigas, nulla nei “progetti norma”. Credo che l’urbanistica debba mettere in moto le intelligenze di chi progetta, non paralizzarle. Credo nella coincidenza fra urbanistica ed architettura, ma per approfondire questo tema essenziale dovremmo avere molto spazio e molto tempo !
. 30 entrambi abbiamo letto il simpatico libro “Il Progetto Khalesa”; vorrei approfondire la tua idea sul recupero dei centri storici ed sul tema del recupero delle periferie e sul valore dello spazio pubblico.
Distinguere centro storico / periferia è origine di molti mali. Con la sintesi di uno slogan: soluzioni innovative nei centri storici e, al contrario, soluzioni antiche per introdurre densità, mixitè funzionali, monumentalità e bellezza nelle periferie. Lo spazio pubblico è l’essenza della città e la città dovrebbe essere davvero una “seconda natura finalizzata ed usi civili”. Lo spazio pubblico dovrebbe essere la concatenazione dei luoghi per stare insieme, incontrarsi: a volte invece è solo spazio senza padrone, abbandonato come un cane randagio. Per “ricivilizzare l’urbano” oggi occorre agire prioritariamente sul “non costruito”, dare qualità agli spazi di incontro e di socializzazione, densificare.
.31 Il progetto di recupero degli spazi urbani è un tema che ritengo di grande attualità. Nei vostri progetti uno in particolare mi sembra simbolo di questo spirito. Il progetto della piazza di Fuorigrotta. Puoi descriverci il progetto le sue motivazioni e la sua visione complessiva? Esisteva un “piazzale”, un’area dilatata oltre cinque ettari al cui intorno, oltre la Stazione dei Campi Flegrei e quella della Cumana, si affacciano architetture importanti (la Mostra d’Oltremare e il cosiddetto “palazzo Canino”, lo Stadio San Paolo di Carlo Cocchia, la Facoltà di Ingegneria di Luigi Cosenza, si stava allora ultimando la sede dell’Istituto Motori del CNR). Uno spazio enorme e indefinito, peraltro di collegamento ai Laboratori della Facoltà di Ingegneria ed alla sede della RAI. Con il progetto dell’Istituto Motori avevamo tentato di lanciare un debole segno di legame fra l’atrio del nuovo polo tecnologico e l’atrio della facoltà di Ingegneria. Il progetto muoveva dall’ipotesi di portare il traffico in sottosuolo e di creare una Piazza. Ma trasformare un “piazzale” in “piazza” senza disporre di edifici che possano comprimere lo spazio, è impresa difficilissima. Immaginammo un recinto immateriale, come i poderi di campagna segnati da un semplice portale: tre alti obelischi -le tre torri- nella memoria delle macchine da festa del ‘700, ai vertici di un’area pavimentata in legno. Stando all’interno di questo luogo triangolare si sentono le pareti immateriali che ne uniscono gli spigoli. Poi il “percorso olfattivo”, sensazioni e variato rumore dei passi su pavimentazioni diverse, la “fontana meteoropatica” diversamente vivace in funzione dell’intensità solare. La “Torre del Tempo e dei Fluidi” (la più grande meridiana mai realizzata) con una vela mossa dal vento e le note della “passeggiata di Mussorgsky”; poi la “Torre dell’Informazione” (dai tazebao, alla casa dei piccioni viaggiatori, a un grande videowall -quando “Ritorno al futuro 2” non era ancora nelle sale cinematografiche); la “Torre della Memoria”, enorme periscopio per vedere altrove, il reale e l’irreale; al suo interno istoriabile con documenti dell’arte della città. Il progetto era corredato da un piano di gestione e manutenzione preciso, articolato nelle diverse stagioni (un numero del Carré Bleu (3/4 – 1992, « Immateriel sur la place / Architecture sur la place » documentò tutto, anche con le originali interpretazioni di Mit Mitropoulos, Patrik Prado, Fred Forest ed altri amici): le beghe del Consiglio comunale rifiutarono l’offerta dell’Italstat e rimandarono….
. 32 del concetto di sostenibilità e delle nuove tecnologie La sostenibilità è questione complessa e carica di equivoci: preferisco un colabrodo energetico che determini coesione sociale, a “smart buildings” che si compiacciono del proprio isolamento.
. 33 Pisa è una città sede di tre Università: qual è il tuo modo di vedere la struttura universitaria? Compatta, diffusa nella città o altro ancora? Essenziale che sia compatta (non è “università” quando si dilata o si fraziona in facoltà o dipartimenti distanti) ed al tempo stesso che sia diffusa nella città densa. Voglio dire l’università è un sistema ad alta densità che deve intrecciarsi con le altre attività urbane. L’università si fonda sugli spazi non dedicati a funzioni specifiche, dove ci si incontra, ci si scontra, dove c’è contaminazione e scambio creativo. Qui si potrebbe aprire un discorso molto ampio che non riguarda solo gli edifici universitari: ormai le funzioni hanno perso necessità di ”unità di luogo” fino a poco fa condizione essenziale per ciascuna di loro. Tutte le antiche funzioni: la fabbrica, l’ufficio, la scuola, l’ospedale e via dicendo. La cultura digitale, l’informatica aiutano questa dissoluzione che però deriva da altro: è più una mutazione culturale che una conseguenza tecnologica. Il senso dato cinquant’anni fa a “Un seme per la metropoli” era già questo. Da una parte è indispensabile creare condizioni per lo stare insieme, d’altra parte -in ogni tradizionale “funzione”- occorre dare spazio a funzioni non conosciute, sostenere creatività e intelligenza collettiva, dare valore allo spazio “pubblico, di socializzazione, di scambio cui accennavo prima.
. 34 Il tema della “densità” caratteristico della ricerca dei tuoi progetti di trasformazione urbana; come arrivi alla definizione progettuale di frammenti urbani ricchi di significati? Leggendo pazientemente il contesto o meglio i molti contesti che definiscono ogni luogo. Si tratta di “apofenia”, forte volontà di rintracciare relazioni fra le cose e di introdurre qualcosa che dialoghi con quanto c’è, indipendentemente dal suo essere o meno -secondo i casi- forte o corale.
Lavoro
. 35 quale importanza viene data dal vostro studio allo strumento dei concorsi in ogni sua versione Dei nostri progetti, almeno 2 su 3 sono concorsi. È un enorme investimento in ricerca che ha continue ricadute nelle attività correnti.
. 36 sono un particolare frequentatore della pratica dei concorsi di progettazione; conosco le problematiche in Italia e sono affascinato dalle possibilità che hanno i nostri colleghi francesi. Conosci il mondo dell’architettura in Francia: puoi descriverci punti di forza ed eventuali punti deboli del loro sistema
I nostri colleghi francesi hanno un titolo formalmente analogo al nostro, si chiamano “architetti” come noi, ma sono molto diversamente presenti nell’organizzazione sociale. Facile il paragone con il ruolo che in Italia hanno i notai. In Francia il numero di architetti per abitante è 1/5 di quanto in Italia (e qui anche altri professionisti, quantitativamente oltre il doppio, possono progettare). In Francia vi è ormai consolidata prassi di concorsi di progettazione, molti con un numero potenzialmente basso di concorrenti: quindi i concorsi di fatto sono sempre “ristretti” e prevedono un’adeguata retribuzione/rimborso spese per tutti i partecipanti. In Francia il tempo che intercorre fra il lancio di un concorso e l’inaugurazione dell’opera è solo una frazione di quello italiano. La velocità ha ricadute etiche: è rarissimo un giudizio sbagliato: chi giudica sarebbe subito giudicato dagli abitanti. Finché non sono state introdotte farisaiche norme sull’anonimato, in Francia è stato normale discutere della proposta fra concorrenti e giuria. Oggi non più ed è un male. Il modello francese non è esportabile in Italia soprattutto per motivi di numero: qui si dovrebbero concordare modalità diverse, che presuppongono programmazione e quindi la possibilità di contemperare l’esigenza della collettività di selezionare la migliore delle soluzioni al problema specifico e quella di evitare un gigantesco spreco di energie che riduce gli architetti italiani al ruolo di mecenati.
. 37 quando affrontate un progetto di concorso ti lasci guidare dalla tua idea del progetto e poi verifichi il programma oppure il programma fin da subito è ritenuto una guida da seguire? La metodologia è sostanziale. Il rispetto del programma di progetto è condizione base per poter confrontare alternative e scegliere. Se il programma di progetto sembra improprio, ne discuterà con il committente dopo avere vinto regolarmente un concorso: folli le interpretazioni procedurali che impongono l’assoluta conformità. Quando le regole di concorrenza hanno svolto la loro funzione, il rapporto sostanziale fra committente e progettista può riprendersi, è importantissimo.
. 38 come consideri la ricerca ed il lavoro dei PCA in relazione al panorama architettonico internazionale? Un lavoro paziente, poco interessato alle mode, poche occasioni concrete, sufficienti però per continuare a supportare una riflessione teorica intensa e motivata.
. 39 credo molto nel ruolo dell’architetto come artefice anche di progetti fortemente simbolici, esempi in grado di cambiare e migliorare la storia di un luogo: puoi raccontarci la storia del progetto di Bagnoli -Città della Scienza? è una lunga avventura, che nasce partecipando anche alla scelta dell’area. Una fabbrica di metà ‘800 lungo la costa, l’area tagliata in due da una strada fra due lunghi muri. Questione base, come trasformare questa separazione in unione, come puntare a un futuro in cui la strada diventi una corte, si dilati, si chiuda a nord come a sud, come pensare all’arrivo da mare, come legare il mare con l’interno. Esempio di riferimento è l’impianto della Reggia di Portici: il cortile attraversato dalla strada borbonica, scavalcata così da legare mare e Vesuvio: certo nel ‘700 c’era una diversa forza economica, una diversa potenza espressiva, assenza di vincoli precostituiti e banalità dominanti. Il progetto della Città della Scienza è del 1993, rispettoso di edifici che si volevano tutelare. Un progetto molto articolato, su quasi 7 ettari e per quasi 220.000 mc. o ca. 40.000 mq. di SUL, con un molo per l’arrivo al museo da mare. Per motivi perversi (si volevano porre le condizioni per la loro eliminazione, secondo un piano urbanistico astratto, oggi tutto da rifare) il vincolo viene però tolto poco prima che si aprano i cantieri: lavoriamo quindi con libertà insospettate e man mano ci affranchiamo dai primi progetti. Nel secondo grande complesso ci si consente addirittura di demolire e ricostruire nel rispetto della sagoma: grande lavoro allora sullo spazio interno. Il terzo grande intervento dovrebbe ultimarsi quest’anno: “Corporea” è un’espressione plastica inedita, approvata perché siamo riusciti a dimostrare che con i due terzi della cubatura preesistente potevamo rispondere alle stesse esigenze ed aprire paesaggi. Il complesso della Città della Scienza vive di fratture, frammenti tesi a captare un paesaggio straordinario e chi viveva quegli spazi, l’anno scorso distrutti da un incendio doloso, era affascinato dal paesaggio: per proprietà transitiva quindi riteneva l’edificio “bello”. E’ un progetto che ha ricevuto molti riconoscimenti, anche internazionali, ben documentato anche tante pubblicazioni e dalla monografia curata da Mario Pisani e da un libro che ne percorre l’intera vicenda, a cura di Pietro Greco, ambedue tradotti anche in inglese.
. 40 mi interessa molto il concetto di edificio non fine a se stesso ma parte di un sistema molto più ampio, parte di un frammento. Puoi raccontarmi i principi generatori di un vostro progetto, a mio avviso, simbolo in questo senso come Arcavacata? Anche qui il primo coinvolgimento fu nella scelta dell’area. L’Università stava esaminando varie alternative, centinaia di ettari da distruggere per disperdervi la sua sede; poi c’erano degli schizzi di Piccinato che suggeriva di impegnare la valle del Crati. Esaminai quei luoghi di mattina all’alba e li vidi carichi di nebbia: poco più in là s’intravedevano bellissime colline soleggiate. Le raggiunsi e mi resi conto che si era proprio sullo svincolo dell’autostrada, la città si vedeva a poca distanza: immaginai una struttura che scavalcasse le colline, che avesse il suo percorso fondamentale al di sopra di alcuni spazi ed al di sotto di altri, che avesse quindi un’alta densità adatta a compattare ed a favorire incontri e scambi, socializzazione e cultura. Non potevo sospettare cosa avrebbe sollevato quella scelta, quali contrasti politici sarebbero nati: la forza del non conoscere mi fece condurre una battaglia ingenua, alla fine vincente perché evidentemente convinceva chi doveva decidere ed era sostenuta dal comune di Rende, piccolo ma potentemente diretto. Prima ancora di scegliere l’area e prima che gli organi dell’Università avessero deciso quali corsi prioritariamente attivare, avevamo fatto un progetto astratto, privo di luogo, doppio asse di simmetria, che ambiva a non essere un ingombro sul territorio, quindi sottopassabile e sovrapassabile, basato su ordinate sequenze dimensionali di spazi e sui diversi di livelli della loro attrezzatura. Un organigramma scambiato per progetto, base di una gara nazionale: così furono individuate le tecnologie costruttive più rapide ed economiche. Una volta scelta l’area, smontammo il progetto astratto nei suoi componenti che riaggregammo in funzione di contrastanti punti di vista, sintesi estrema da una parte, frantumazione spinta dall’altra, l’autostrada e l’avvicinamento da monte; in funzione del rapporto con il luogo specifico, percorsi pedonali, un tetto come grande teatro all’aperto e, come fondale, la valle del Crati e la città poco distante. Troppo lungo spiegare un progetto in cantiere a maggio 1972 e già utilizzabile in parte a dicembre dello stesso anno: il polifunzionale di Arcavacata è ancora oggi un punto di incontro piacevole nell’ormai grande università della Calabria sostanzialmente realizzata sull’impianto emerso dal concorso poi vinto dal gruppo guidato da Vittorio Gregotti. Fu un progetto discusso con in “comitati ordinatori”, non erano ancora stati chiamati i professori che avrebbero dovuto utilizzarlo. Qualcuno poi lo battezzò “l’a-funzionale”: non consentiva appropriazioni di spazio. C’era chi cercava di recintare una sua parte, con disagi per sé e per gli altri, ma c’era anche chi faceva lezione un giorno in un’aula, un giorno -se il clima lo consentiva- sulle gradonate di copertura o magari sotto un portico o nelle scale. Lo spazio doveva esprimere libertà e, in un periodo di “occupazione”, mi resi conto che non si potevano chiudere ingressi, solo mettere striscioni, accatastare banchi, disegnare bellissimi murales.
. 41 io sono personalmente un appassionato di biografie e studiando ogni aspetto, partendo dall’assunto che un grande progetto scaturisce sempre da un grande rapporto tra architetto e committente; penso a L. Kahn e Jonas Salk, piuttosto che Wright e Herbert Johnson o Michelangelo e Papa Giulio II; ci puoi raccontare la tua esperienza? Il mio primo committente, l’ingegnere svizzero del 1960, fu formidabile partecipe nelle messe a punto tecnologiche ed innovative dell’opera. Un altro suo amico, un medico sempre svizzero, mi aprì la mente al costruire sostenibile ante litteram: protezione solare, recupero delle acque piovane, materiali naturali; ed al tempo stesso alla semplicità ed alla flessibilità dello spazio: costruimmo la sua grande casa con un piano nel quale veniva assicurata la possibilità di viverci anche se per disgrazia su sedia a rotelle ! Poi i grandi personaggi alla guida di istituzioni pubbliche. Beniamino Andreatta era un rettore esigente, voleva capire e discutere di tutto, sfidava a ricercare soluzioni inconsuete e stimolanti: il “polifunzionale di Aracavacata” me lo fece vedere steso per terra per meglio leggerne il plastico. Quando gli proposi una particolare impostazione come base per il bando di concorso della nuova Università, lo discusse in ogni dettaglio e, alla fine, volle che Zevi e De Carlo lo condividessero. Fu una importante esperienza. Anche la Biblioteca di Pistoia, benché derivasse da un concorso, si è fatta perché l’Amministrazione comunale, la Fondazione della banca locale, la Soprintendenza, il Direttore della Biblioteca, tutti erano convinti di partecipare e di rimuovere gli inevitabili ostacoli che s’incontrano in concreto. L’avventura della Città della Scienza è stata possibile solo grazie a Vittorio Silvestrini, un committente straordinario, interessato, capace di chiedere costantemente cose nuove. All’opposto mi è capitato di progettare anche opere importanti dopo un concorso, ma seguite solo da una piatta ed indifferente burocrazia, incapace di svolgere alcun ruolo, solo di intralciare, rallentare, impedire…..
. 42 che rapporto hai con il cantiere Difficile quando, come spesso accade qui da noi, non si ha ruolo di effettiva guida, quando ti senti troppo solo nel puntare al risultato dell’opera e nel contrastare i tentativi di corrosione generati da impropri tentativi di semplificare e banalizzare.
. 43 cosa consiglieresti ad un giovane architetto all’inizio della sua carriera Innanzitutto lo spingerei a girare per studi di progettazione di media dimensione, selezionati in vari paesi del mondo. Trascorrere almeno un anno in un luogo, un altro in un altro, venire a contatto con realtà differenti, cercare di formarsi sentendo e praticando esperienze, arrivare a 30-35 anni avendo incontrato personalità diverse ed avendo tratto da ciascuna qualcosa da mescolare in un caos dal quale uscire poi attraverso esperienze dirette, sempre insieme ad amici fidati. Gli consiglierei di riflettere, sperimentare e comprendere che il nostro è un mestiere bellissimo, ma che richiede dedizione assoluta, entusiasmo, fiducia, anche quando si è sconfitti.
Massimo Del Seppia Architetto.